Hai lasciato un segno

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Hai lasciato un segno – più profondo del previsto

Tu qualcosa l’avevi aspirato, desiderato, immaginato

Per poi ritrattare immediatamente in un batter d’occhio

Lasciandomi senza parole – a bocca asciutta

Senza spiegazione – senza pudore, senza pietà

Hai lasciato un vuoto ancora prima di riempire lo spazio tra di noi

Ma troppo tardi x non lasciare un segno – più profondo di quanto hai immaginato.

Come una Toyota puó insegnare l’amore

È vero che certe persone prestano + attenzione alla loro macchina che non alle persone che gli stanno accanto. Non sará di certo una macchina ad insegnarci ad e come amare. Peró una pubblicitá ben fatta, puó farci riflettere sulle cose veramente importanti e un’iniziativa come quella del progetto pioneer può contribuire a concretizzarle.

L’amore é il frutto di una cura continua. Bisogna coltivarlo. L’amore non é l’inizio di una grande storia, ma il frutto di piccoli gesti. È impegno quotidiano. Una decisione quotidiana “OGGI VOGLIO AMARE” , anzi di ogni instante “ADESSO VOGLIO AMARE”. “Sono pronto ad amare”. L’amore nasce da un atto volontario di una persona matura e consapevole. “Si lo voglio”. Molto + di un sentimento effimero.

 

 

 

L’amore e il sesso, come il mare e la vasca da bagno

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“E anche i pochi che riescono ad aprirsi vicendevolmente e a innamorarsi, dopo breve appaiono inconsapevoli della necessità di coltivare, di nutrire questo amore e subito lo consumano come un barattolo di nutella.

Così in molti arrivano a derubricare il proprio bisogno d’amore a semplice attrazione sessuale, le cui emozioni forti diventano una droga che compensa e bilancia la mancanza di un amore vero.

Il rapporto tra sesso e amore lo paragonerei a quello tra la vasca da bagno e il mare. Quasi tutti abbiamo a casa una vasca in cui immergerci per trovare refrigerio in una torrida giornata d’estate. Perché allora il refrigerio di un bagno lo andiamo a cercare al mare? Forse perché la sabbia, il sole, il cielo, il mare, sono tutte dimensioni che ci avvolgono con il loro essere infinite e l’essere immerso in tante meravigliose dimensioni infinite è molto più umano e umanizzante che guardare le mattonelle del proprio bagno stando a mollo nella vasca. È ovvio che il vero amore tra uomo e donna preveda anche l’esercizio della sessualità, ma la colloca in un contesto di dimensioni emotive ed esistenziali appunto infinite.”

Queste frasi mi hanno molto colpita. Forse perché mi sono piaciute, perché belle e profonde, così vere, oppure forse perché scritte da un ragazzo autistico……Federico de Rosa (Quello che non ho mai detto).

Quando la banalità del quotidiano….

 

Gesti banali, come quello del taglio di una barba o di una fumata di sigaretta, diventati portatore di un senso + profondo come quello della riconquista di una libertà negata con violenza, possono suscitare gioia e tristezza allo stesso tempo.

Le immagini di uomini che si tagliano la barba sorridendo e di donne che fumano una sigaretta mostrando il loro volto, come le immagini scattate in questi giorni a Manbij, sembrano (almeno a noi) gesti di una vita quotidiana e quasi banale. Ma a chi è stato negato un diritto umano, anzi il dono divino + importante, cioè quello della libertà, questi gesti marcano l’inizio di una vita nuova e speriamo di una vita migliore.

Dovremmo essere grati, noi che la libertà la gustiamo ogni giorno. Dovremmo vivere questa libertà, x noi così quotidiana che nemmeno ce ne rendiamo conto, nel bene e x il bene. Perché il bene, l’amore e la libertà sono fratelli dello stesso padre. Lì dove uomini comandano e controllano altri imponendo le loro idee del bene e del male con violenza e barbarie, gli esseri umani smettono di essere fratelli.

Se non vuoi perdere la libertà, lascia un’impronta!

spuren-2….Ci sono situazioni che possono risultarci lontane fino a quando, in qualche modo, le tocchiamo. Ci sono realtà che non comprendiamo perché le vediamo solo attraverso uno schermo (del cellulare o del computer). Ma quando prendiamo contatto con la vita, con quelle vite concrete non più mediatizzate dagli schermi, allora ci succede qualcosa di forte: tutti sentiamo l’invito a coinvolgerci:  mai più deve succedere che dei fratelli siano “circondati da morte e da uccisioni” sentendo che nessuno li aiuterà. Cari amici, vi invito a pregare insieme a motivo della sofferenza di tante vittime della guerra, di questa guerra che c’è oggi nel mondo, affinché una volta per tutte possiamo capire che niente giustifica il sangue di un fratello, che niente è più prezioso della persona che abbiamo accanto.

Noi adesso non ci metteremo a gridare contro qualcuno, non ci metteremo a litigare, non vogliamo distruggere, non vogliamo insultare. Noi non vogliamo vincere l’odio con più odio, vincere la violenza con più violenza, vincere il terrore con più terrore. E la nostra risposta a questo mondo in guerra ha un nome: si chiama fraternità, si chiama fratellanza, si chiama comunione, si chiama famiglia. Festeggiamo il fatto che veniamo da culture diverse e ci uniamo per pregare. La nostra migliore parola, il nostro miglior discorso sia unirci in preghiera. Facciamo un momento di silenzio e preghiamo; mettiamo davanti a Dio le testimonianze di questi amici, identifichiamoci con quelli per i quali “la famiglia è un concetto inesistente, la casa solo un posto dove dormire e mangiare”, o con quelli che vivono nella paura di credere che i loro errori e peccati li abbiano tagliati fuori definitivamente. Mettiamo alla presenza del nostro Dio anche le vostre “guerre”, le nostre “guerre”, le lotte che ciascuno porta con sé, nel proprio cuore. E per questo, per essere in famiglia, in fratellanza, tutti insieme, vi invito ad alzarvi, a prendervi per mano e a pregare in silenzio. Tutti.

Mentre pregavamo mi veniva in mente l’immagine degli Apostoli nel giorno di Pentecoste. Una scena che ci può aiutare a comprendere tutto ciò che Dio sogna di realizzare nella nostra vita, in noi e con noi. Quel giorno i discepoli stavano chiusi dentro per la paura. Si sentivano minacciati da un ambiente che li perseguitava, che li costringeva a stare in una piccola abitazione obbligandoli a rimanere fermi e paralizzati. Il timore si era impadronito di loro. In quel contesto, accadde qualcosa di spettacolare, qualcosa di grandioso. Venne lo Spirito Santo e delle lingue come di fuoco si posarono su ciascuno di essi, spingendoli a un’avventura che mai avrebbero sognato. La cosa cambia completamente!

La paura e l’angoscia che nascono dal sapere che uscendo di casa uno può non rivedere più i suoi cari, la paura di non sentirsi apprezzato e amato, la paura di non avere altre opportunità. Dove ci porta, la paura? Alla chiusura. E quando la paura si rintana nella chiusura, va sempre in compagnia di sua “sorella gemella”, la paralisi; sentirci paralizzati. Sentire che in questo mondo, nelle nostre città, nelle nostre comunità, non c’è più spazio per crescere, per sognare, per creare, per guardare orizzonti, in definitiva per vivere, è uno dei mali peggiori che ci possono capitare nella vita, e specialmente nella giovinezza. La paralisi ci fa perdere il gusto di godere dell’incontro, dell’amicizia, il gusto di sognare insieme, di camminare con gli altri. Ci allontana dagli altri, ci impedisce di stringere la mano.

Ma nella vita c’è un’altra paralisi  ancora più pericolosa e spesso difficile da identificare, e che ci costa molto riconoscere. Mi piace chiamarla la paralisi che nasce quando si confonde la FELICITÀ con un DIVANO / KANAPA! Sì, credere che per essere felici abbiamo bisogno di un buon divano. Un divano che ci aiuti a stare comodi, tranquilli, ben sicuri. Un divano, come quelli che ci sono adesso, moderni, con massaggi per dormire inclusi, che ci garantiscano ore di tranquillità per trasferirci nel mondo dei videogiochi e passare ore di fronte al computer. Un divano contro ogni tipo di dolore e timore. Un divano che ci faccia stare chiusi in casa senza affaticarci né preoccuparci. La “divano-felicità” / “kanapa-szczęście” è probabilmente la paralisi silenziosa che ci può rovinare di più, che può rovinare di più la gioventù. “E perché succede questo, Padre?”. Perché a poco a poco, senza rendercene conto, ci troviamo addormentati, ci troviamo imbambolati e intontiti. L’altro ieri, parlavo dei giovani che vanno in pensione a 20 anni; oggi parlo dei giovani addormentati, imbambolati, intontiti, mentre altri – forse i più vivi, ma non i più buoni – decidono il futuro per noi. Sicuramente, per molti è più facile e vantaggioso avere dei giovani imbambolati e intontiti che confondono la felicità con un divano; per molti questo risulta più conveniente che avere giovani svegli, desiderosi di rispondere, di rispondere al sogno di Dio e a tutte le aspirazioni del cuore. Voi, vi domando, domando a voi: volete essere giovani addormentati, imbambolati, intontiti? [No!] Volete che altri decidano il futuro per voi? [No!] Volete essere liberi? [Sì!] Volete essere svegli? [Sì!] Volete lottare per il vostro futuro? [Sì!] Non siete troppo convinti… Volete lottare per il vostro futuro? [Sì!]

9155015-caricatura-relajante-adolescente-en-el-sofa-el-es-comer-un-bocadillo-y-tiene-un-refresco-practicoMa la verità è un’altra: cari giovani, non siamo venuti al mondo per “vegetare”, per passarcela comodamente, per fare della vita un divano che ci addormenti; al contrario, siamo venuti per un’altra cosa, per lasciare un’impronta. E’ molto triste passare nella vita senza lasciare un’impronta. Ma quando scegliamo la comodità, confondendo felicità con consumare, allora il prezzo che paghiamo è molto ma molto caro: perdiamo la libertà. Non siamo liberi di lasciare un’impronta. Perdiamo la libertà. Questo è il prezzo. E c’è tanta gente che vuole che i giovani non siano liberi; c’è tanta gente che non vi vuole bene, che vi vuole intontiti, imbambolati, addormentati, ma mai liberi. No, questo no! Dobbiamo difendere la nostra libertà!

Proprio qui c’è una grande paralisi, quando cominciamo a pensare che felicità è sinonimo di comodità, che essere felice è camminare nella vita addormentato o narcotizzato, che l’unico modo di essere felice è stare come intontito. E’ certo che la droga fa male, ma ci sono molte altre droghe socialmente accettate che finiscono per renderci molto o comunque più schiavi. Le une e le altre ci spogliano del nostro bene più grande: la libertà. Ci spogliano della libertà.

WanderschuheAmici, Gesù è il Signore del rischio, è il Signore del sempre “oltre”. Gesù non è il Signore del confort, della sicurezza e della comodità. Per seguire Gesù, bisogna avere una dose di coraggio, bisogna decidersi a cambiare il divano con un paio di scarpe che ti aiutino a camminare su strade mai sognate e nemmeno pensate, su strade che possono aprire nuovi orizzonti, capaci di contagiare gioia, quella gioia che nasce dall’amore di Dio, la gioia che lascia nel tuo cuore ogni gesto, ogni atteggiamento di misericordia. Andare per le strade seguendo la “pazzia” del nostro Dio che ci insegna a incontrarlo nell’affamato, nell’assetato, nel nudo, nel malato, nell’amico che è finito male, nel detenuto, nel profugo e nel migrante, nel vicino che è solo. Andare per le strade del nostro Dio che ci invita ad essere attori politici, persone che pensano, animatori sociali. Che ci stimola a pensare un’economia più solidale di questa. In tutti gli ambiti in cui vi trovate, l’amore di Dio ci invita a portare la Buona Notizia, facendo della propria vita un dono a Lui e agli altri. E questo significa essere coraggiosi, questo significa essere liberi!

Potrete dirmi: Padre, ma questo non è per tutti, è solo per alcuni eletti! Sì, è vero, e questi eletti sono tutti quelli che sono disposti a condividere la loro vita con gli altri. Allo stesso modo in cui lo Spirito Santo trasformò il cuore dei discepoli nel giorno di Pentecoste – erano paralizzati – lo ha fatto anche con i nostri amici che hanno condiviso le loro testimonianze. Uso le tue parole, Miguel: tu ci dicevi che il giorno in cui nella “Facenda” ti hanno affidato la responsabilità di aiutare per il migliore funzionamento della casa, allora hai cominciato a capire che Dio chiedeva qualcosa da te. Così è cominciata la trasformazione.

Questo è il segreto, cari amici, che tutti siamo chiamati a sperimentare. Dio aspetta qualcosa da te. Avete capito? Dio aspetta qualcosa da te, Dio vuole qualcosa da te, Dio aspetta te. Dio viene a rompere le nostre chiusure, viene ad aprire le porte delle nostre vite, delle nostre visioni, dei nostri sguardi. Dio viene ad aprire tutto ciò che ti chiude. Ti sta invitando a sognare, vuole farti vedere che il mondo con te può essere diverso. E’ così: se tu non ci metti il meglio di te, il mondo non sarà diverso. E’ una sfida.

Il tempo che oggi stiamo vivendo non ha bisogno di giovani-divano / młodzi kanapowi, ma di giovani con le scarpe, meglio ancora, con gli scarponcini calzati. Questo tempo accetta solo giocatori titolari in campo, non c’è posto per riserve. Il mondo di oggi vi chiede di essere protagonisti della storia perché la vita è bella sempre che vogliamo viverla, sempre che vogliamo lasciare un’impronta. La storia oggi ci chiede di difendere la nostra dignità e non lasciare che siano altri a decidere il nostro futuro. No! Noi dobbiamo decidere il nostro futuro, voi il vostro futuro! Il Signore, come a Pentecoste, vuole realizzare uno dei più grandi miracoli che possiamo sperimentare: far sì che le tue mani, le mie mani, le nostre mani si trasformino in segni di riconciliazione, di comunione, di creazione. Egli vuole le tue mani per continuare a costruire il mondo di oggi. Vuole costruirlo con te. E tu, cosa rispondi? Cosa rispondi, tu? Sì o no? [Sì!]

Mi dirai: Padre, ma io sono molto limitato, sono peccatore, cosa posso fare? Quando il Signore ci chiama non pensa a ciò che siamo, a ciò che eravamo, a ciò che abbiamo fatto o smesso di fare. Al contrario: nel momento in cui ci chiama, Egli sta guardando tutto quello che potremmo fare, tutto l’amore che siamo capaci di contagiare. Lui scommette sempre sul futuro, sul domani. Gesù ti proietta all’orizzonte, mai al museo.

1280xPer questo, amici, oggi Gesù ti invita, ti chiama a lasciare la tua impronta nella vita, un’impronta che segni la storia, che segni la tua storia e la storia di tanti.

La vita di oggi ci dice che è molto facile fissare l’attenzione su quello che ci divide, su quello che ci separa. Vorrebbero farci credere che chiuderci è il miglior modo di proteggerci da ciò che ci fa male. Oggi noi adulti – noi, adulti! – abbiamo bisogno di voi, per insegnarci – come adesso fate voi, oggi – a convivere nella diversità, nel dialogo, nel condividere la multiculturalità non come una minaccia ma come un’opportunità. E voi siete un’opportunità per il futuro. Abbiate il coraggio di insegnarci, abbiate il coraggio di insegnare a noi che è più facile costruire ponti che innalzare muri! Abbiamo bisogno di imparare questo. E tutti insieme chiediamo che esigiate da noi di percorrere le strade della fraternità. Che siate voi i nostri accusatori, se noi scegliamo la via dei muri, la via dell’inimicizia, la via della guerra. Costruire ponti: sapete qual è il primo ponte da costruire? Un ponte che possiamo realizzare qui e ora: stringerci la mano, darci la mano. Forza, fatelo adesso. Fate questo ponte umano, datevi la mano, tutti voi: è il ponte primordiale, è il ponte umano, è il primo, è il modello. Sempre c’è il rischio – l’ho detto l’altro giorno – di rimanere con la mano tesa, ma nella vita bisogna rischiare, chi non rischia non vince. Con questo ponte, andiamo avanti. Qui, questo ponte primordiale: stringetevi la mano. Grazie. E’ il grande ponte fraterno, e possano imparare a farlo i grandi di questo mondo!… ma non per la fotografia – quando si danno la mano e pensano un’altra cosa -, bensì per continuare a costruire ponti sempre più grandi. Che questo ponte umano sia seme di tanti altri; sarà un’impronta.

Oggi Gesù, che è la via, chiama te a lasciare la tua impronta nella storia. Lui, che è la vita, ti invita a lasciare un’impronta che riempia di vita la tua storia e quella di tanti altri. Lui, che è la verità, ti invita a lasciare le strade della separazione, della divisione, del non-senso. Ci stai? [Sì!] Ci stai? [Sì!] Cosa rispondono adesso – voglio vedere – le tue mani e i tuoi piedi al Signore, che è via, verità e vita? Ci stai? [Sì!] Il Signore benedica i vostri sogni. Grazie!

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fonte: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2016/july/documents/papa-francesco_20160730_polonia-veglia-giovani.html

VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO IN POLONIA IN OCCASIONE DELLA XXXI GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTÙ (27-31 LUGLIO 2016)

VEGLIA DI PREGHIERA CON I GIOVANI – DISCORSO DEL SANTO PADRE

Campus Misericordiae, Cracovia Sabato, 30 luglio 2016


Musica, dolore….. et un peu d’amour

LA VIOLONCELLISTA PARIGINA CHE SUONA NEGLI OSPEDALI PER I MALATI TERMINALI

 

Claire Oppert, da qualche anno, si reca in un ospedale nel centro della città per esibirsi con il suo strumento davanti ai pazienti e alleviare così il loro dolore.

La violoncellista parigina che suona negli ospedali per i malati terminali

Per Claire Oppert, violoncellista parigina, i suoi compositori preferiti rimangono pur sempre Johann Sebastian Bach o Franz Schubert, anche se il suo repertorio musicale nel corso degli anni si è ampliato notevolmente, lasciando spazio anche alle musiche di Mozart o Brahms o al sound rockeggiante del Maghreb, a seconda delle richieste del suo particolare pubblico.

Infatti, Claire con il suo violoncello, una volta a settimana, si esibisce non sul palcoscenico di un teatro, bensì nelle fredde e impersonali stanze del reparto di oncologia e di cure palliative dell’ospedale Sainte-Perine di Parigi. Qui, sulle note delle opere classiche, la giovane musicista tenta di alleviare con la sua musica il dolore fisico e psicologico dei malati allo stadio terminale.

Un impegno, questo, che la giovane violoncellista considera quasi come una missione di vita, come lei stessa ha raccontato a un’emittente televisiva locale nel corso di un incontro: “Quando ero piccola volevo essere un medico-musicista”.

Claire ha scelto la musica, ma l’inclinazione a rendersi utile per gli altri non l’ha mai perduta. Anzi è riuscita a conciliare entrambe le cose.

Nonostante abbia calcato numerosi palcoscenici in giro per il mondo, da tre anni a questa parte, ogni venerdì, la giovane musicista ha un appuntamento fisso con i suoi pazienti. Oramai è diventata una presenza costante tra i corridoi della struttura. La sua musica vibra da una stanza all’altra, creando così un intimo legame con il suo paziente costretto su un letto di ospedale.

Parigina di nascita, Claire Oppert ha dedicato la sua vita professionale alla musica, studiando nella prestigiosa Accademia Tchaikovsky di Mosca, dove ha conseguito il diploma nel 1993.

Nello stesso anno, ha iniziato a suonare come solista nella Filarmonica di Berlino, per poi diventare membro dell’Helios Quartet con il quale ha inciso numerosi cd musicali. Con il suo violoncello, Claire ha suonato oltre che in patria, anche in Europa, in Cina e in Australia.

“Quando i pazienti la vedono entrare, si rilassano. Le domandano di suonare Schubert o Mozart e lei le esegue perfettamente. La sua musica, oramai, è diventata un’arte con funzioni terapeutiche”, ha raccontato Jean-Marie Gomas, coordinatore del Centro del dolore cronico e di cure palliative parigino, uno dei principali fautori di questa iniziativa sostenuta poi da numerosi operatori sanitari della struttura ospedaliera.

Pioniere delle cure palliative, in Francia, il dottor Gomas è profondamente convinto del valore della terapia dell’arte, rinforzata negli ultimi anni dai piccoli miglioramenti riscontrati su alcuni pazienti grazie all’apporto di Claire.

La sua carriere parallela di musico-terapeuta è iniziata con i malati di Alzheimer. Ogni settimana Claire visitava le case di cura e di riposo, offrendo ciò che più le riusciva meglio, ovvero la sua musica come forma di aiuto e di supporto psicologico. Il suo impegno individuale, ben presto, si è trasformato in un progetto volto a misurare i benefici delle sessioni di musica dal vivo sui pazienti sottoposti a cure palliative.

“I primi risultati sono stati straordinari, la maggior parte dei pazienti sono affetti nel profondo del loro animo”, ha raccontato la musicista. Fino a oggi sono stati 92 i pazienti sottoposti a questa pratica. “Non solo malati terminali, ma anche pazienti in coma. Non esiste una cura per tutto ciò, ma cerchiamo di coinvolgere la parte sana del paziente, ossia il suo animo”.

Il progetto è stato avviato nel 2014, con il finanziamento della Fondazione Apicil impegnata nella lotta contro il dolore. Ogni sessione di musicoterapia è costruita in collaborazione con l’equipe medica con l’aiuto della famiglia e durano in media dai 15 ai 20 minuti, ma possono durare anche di più a seconda dello stato di salute dei pazienti.

L’idea futura, ha spiegato Claire Oppert, è quella di ampliare le esperienze di arte terapia negli ospedali, includendo anche la danza, il teatro o la pittura.

Questi esperimenti si andrebbero ad aggiungere ad altri metodi raccomandati dall’Autorità sanitario nazionale (Has) come la terapia di rilassamento, dell’ipnosi e il rilassamento per alleviare il dolore.

(Qui sotto il video di Claire Oppert che suona il suo violoncello davanti ai pazienti del reparto oncologico)

http://tp.srgssr.ch/p/rts/embed?urn=urn:rts:video:5319915

fonte: tpi.it

Parlare di femminicidio non basta!

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Qandeel Baloch era una ragazza ventiseienne che come tanti giovani d’oggi si divertiva a comunicare attraverso e a postare momenti della sua vita quotidiana su facebook. Il suo account da ieri tacerà x sempre, perché suo fratello, dopo averla drogata, l’ha strangolata accusandola di aver disonorato il nome della famiglia. Qandeel si rifiutava di chiudere il suo profilo facebook dove, a parere di una parte della popolazione pachistana, postava immagini e video provocanti non conforme alla cultura del luogo.

Se da una parte si può sicuramente discutere in maniera pluralista sulla necessità e sulla motivazione di una giovane donna di mostrarsi in atteggiamenti sensuali, provocanti e anticonformisti, dall’altra parte una risoluzione così radicale e assoluta di un conflitto d’opinione è sicuramente da condannare categoricamente.

Il femminicidio non può mai essere la soluzione di un rapporto conflittuale tra un uomo e una donna come ovviamente l’omicidio non può mai essere la soluzione di un conflitto d’opinioni o d’interesse.

Il termine femminicidio in accordo con la definizione di violenza di genere viene usato x definire la violenza contro le donne basato su “qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuare la subordinazione e di annientare l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte”. La prima citazione del termine nella sua accezione moderna, come “uccisione di una donna da parte di un uomo per motivi di odio, disprezzo, piacere o senso di possesso delle donne” è soltanto del 1990, per opera della docente di Studi Culturali Americani Jane Caputi e dalla criminologa Diana Russell.

Chiamare questo gesto atroce femminicidio è corretto, ma la definizione mi sembra descrivere soltando la superficie di un fenomeno senza entrare nella profondo della materia. Il nocciolo della materia infatti consiste nella “sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuare la subordinanza”. Cioè il desiderio dell’uomo di controllare la donna, la convinzione dell’uomo di avere un diritto sulla donna, l’umiliazione dell’uomo di non possedere la donna, l’impotenza dell’uomo di non controllare la donna. In’oltre questa sovrastruttura ideologica vale anche x gli omicidi in generale (indipendentemente dal genere), perché si tratta sempre e comunque di non accettare la libertà dell’altro.

Ed è proprio questo il problema: l’incapacità di accettare la libertà dell’altro e di confrontarsi con l’altro x (tentare di) risolvere una differenza d’opinione.

L’incapacità di accettare l’opinione dell’altro, l’incapacità di credere nella potenzialità di qualsiasi uomo di poter cambiare in meglio (se e quando è necessario) e l’incapacità di credere in qualcuno + grande e potente di noi esseri umani che ci ha donato la libertà e che ci ama anche quando sbagliamo e che ci perdona ogni tal volta che glielo chiediamo, sono alla base di qualsiasi atteggiamento di subordinanza.

 

Liberi dentro

Quando sento parlare di libertà il pensiero mi porta da loro: da tutte le persone coraggiose che di fronte al controllo e alla dittatura hanno preferito morire ma non rinunciare alla libertà personale. Nonostante guardassero la sofferenza e la morte negli occhi, sono rimasti liberi fine all’ultimo istante e forse anche al di là della morte. Nel contesto di certe circostanze socio-culturali del momento e del posto si sono assunti la responsabilità delle loro idee e delle loro scelte, nonostante non si trattassero di idee e scelte sbagliate.

Penso per esempio al diciannovenne Amjad bin Sasi che davanti al boia dell’Isis gridò “io non mi pentirò mai”. «Il mio nome vivrà più del tuo», sono state le sue ultime parole. E aveva ragione. Non perché i giornali avessero scritto di lui, ma perché Amjad si è battuto x il bene tentando di cacciare l’Isis da Sirte (secondo informazioni di Human Rights Watch Amjad faceva parte di una milizia fedele a Alba libica, la coalizione che ha tentato di cacciare Isis da Sirte prima del 2015) e preservando in maniera conseguente e categorica il dono divino della libertà rifiutando la dittatura di idee e di leggi imposta da chi vuole mettersi al di sopra di Dio (a noi uomini spetta di insegnare la legge di Dio, ma non a imporla con violenza).

 

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Amjad bin Sasi mentre viene ucciso dall’Isis in dicembre a Sirte

 

Penso alle 150 donne yazide massacrate e uccise a Falluja perché si rifiutavano di sposare i miliziani. Nonostante avessero già subito violenze e stupri, nonostante alcune erano incinte, nonostante la maggior parte di loro era stata ridotta in schiavitù e venduta ai miliziani di Al Baghdadi, hanno preservato la loro libertà e dignità fino alla morte rifiutando di sposare i jihadisti del gruppo. Qualcuno dirà “non avevano molto da perdere, visto che la loro vita era già un incubo” e sicuramente la vita matrimoniale con un jihadista, che sarebbe diventata soprattutto una vita da schiava sessuale, avrebbe mutato l’incubo in inferno. Ma rinunciare alla propria vita è sempre un atto estremo che incute timore e angoscia profonda, perché la vita è percepita un dono prezioso nonostante le atrocità e l’istinto di sopravvivenza è sempre + forte del desiderio di morte. Ma di fronte alla minaccia della propria libertà la minaccia di morte è stata la scelta coraggiosa e dignitosa di queste donne e di Amjad. A loro e a tutti coloro che hanno fatto questa scelta va il mio pensiero, il mio rispetto e la mia preghiera.

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 Amjad bin Sasi (dal rapporto di Human Rights Watch)

 

Emmy è perfetta

Lettera di una mamma di una bimba Down al medico che voleva farla abortire

«Questa è Emmy, che spedisce la nostra lettera allo specialista prenatale che non voleva farla vivere, suggerendomi ripetutamente di abortire». È questa la didascalia scelta da Courtney Baker, madre americana di tre bambine, in una foto nella quale si vede la figlia di un anno con la sindrome di Down sorridente e la lettera in mano.

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IL PRIMO INCONTRO. La foto e il contenuto della lettera sono stati originariamente pubblicati da Parker Myles, blog che si batte contro la discriminazione dei bambini Down, e poi ripresi dai media americani. Baker ricorda nella lettera il primo incontro con il medico, quando aveva bisogno di capire che cosa avrebbe significato avere una figlia Down: «Sono venuto da te nel momento più difficile della mia vita. Ero terrorizzata, ansiosa e disperata. Non sapevo ancora la verità sulla mia bambina, questo è ciò di cui avevo disperatamente bisogno da lei».

ABORTO. «Invece di sostenermi e incoraggiarmi», si legge nella missiva, «mi hai suggerito di terminare la vita della nostra bambina. Io ti ho detto il nome [che avevamo scelto per lei] e tu mi hai chiesto di nuovo se avevo capito quanto bassa sarebbe stata la nostra qualità della vita con un figlio con la sindrome di Down. Ci hai suggerito di riconsiderare la decisione di andare avanti con la gravidanza. Da quella prima visita, abbiamo temuto le successive. Mi hai reso il momento più difficile della mia vita quasi insopportabile, perché non mi hai mai detto la verità. Che la mia bambina era perfetta».

QUALITÀ DELLA VITA. La madre si dice non «arrabbiata, ma triste» e «mi si spezza il cuore all’idea che potresti aver ripetuto a un’altra mamma oggi che un bambino con la sindrome di Down diminuisce la qualità della vita. Ma soprattutto sono triste perché non avrai mai il privilegio di conoscere mia figlia, Emersyn, che non ha solo aumentato la nostra qualità di vita, ma a toccato il cuore di migliaia di persone».

«IL TUO BAMBINO È PERFETTO». Infatti, «lei ci dà uno scopo e una gioia impossibili da esprimere. Ci ha aperto gli occhi alla vera bellezza e all’amore puro. La mia preghiera», conclude la lettera, «è che nessun altra mamma passi quello che ho passato io. (…) Prego anche che tu, quando vedrai il prossimo bambino con la sindrome di Down tutto avvolto nell’utero della madre, possa guardare a quella mamma e, vedendomi, dirle la verità: “Il tuo bambino è perfetto”».

Lettera di una mamma di una bimba Down al medico che voleva farla abortire

Perché l’amore non è un diritto

Semplicemente: l’amore è un sentimento e i sentimenti non sono un diritto. Il diritto è una nozione giuridica. L’amore, come tutti i sentimenti, essendo una caratteristica dell’essere umano invece è una realtà umana. Perciò è sbagliato parlare di diritto all’amore, diritto di amare etc. etc.

Quando l’amore non è inteso come un atto puramente ormonale (in questo caso sarebbe meglio parlare o di innamoramento o di affetto o di istinto sessuale), allora diventa una scelta. Una scelta non è mai un diritto. Perché qualsiasi scelta, anche una scelta sbagliata, è il risultato di una facoltà e attività cognitiva che è sempre un atto strettamente personale. La scelta di amare comporta sempre la decisione di fare dono di se stessi agli altri. Donarsi prestando attenzione agli altri e mettendo le esigenze degli altri al primo posto dietro alle esigenze e agli interessi personali, rende felice gli altri ma colma di gioia anche il donatore. Amare in questo senso è un atto che va oltre il sentimento, oltre la realtà bio-ormonale e oltre qualsiasi diritto.  Secondo me, questo donarsi è l’unico atto veramente degno di essere chiamato amore!

 

Perché fare del volontariato?

solidarité

Una breve riflessione, anzi piuttosto un breve elenco dei motivi x fare del volotariato. Motivi tutti validi, perció senza alcun giudizio:

  • fare del volontariato x aumentare la propria notorietà
  • usare la propria notorietà x promuovere una buona causa
  • fare del volontariato x convinzione
  • fare del volotariato x colmare und vuoto / dare un senso a un vuoto
  • fare del volontariato x non sentirsi inerme
  • fare del volontariato x trasformare il proprio dolore / dare un senso al proprio dolore
  • fare del volontariato x amore donando i propri talenti e se stessi x gli altri

 

Indipendentemente dal motivo, il volotariato fa bene. A entrambe le parti. Scientificamente provato:

Infatti il gruppo di Hannah Schreier della University of British Columbia a Vancouver ha pubblicato nel “Journal of the American Medical Association” (2013) i risultati di una ricerca effettuata su un campione di 53 studenti (campione un pò piccolo….). Dieci settimane dalla fine del volontariato gli studenti coinvolti nel volontariato presentavano meno grasso corporeo, meno colesterolo e meno segni d’infiammazione in confronto agli studenti in lista d’attesa (cotrol group). Sempre secondo questo studio, + il grado di empatia e di amor prossimo (altruismo) erano elevati, + lo studente stava bene. Che dire? Un’altro motivo valido x prodigarsi x gli altri:

  • fare del volontariato fa davvero bene a tutti!

 

E sopratutto grazie a tutti coloro che nel volontariato ci mettono il cuore e la faccia!!!!

Il coraggio di vivere ossia defy your limitations

defythem

Oggi vi voglio presentare un’altra storia colorata e sfaccettata di tante emozioni. È un’altra di quelle storie che nascono nella sofferenza, conoscono travagli e toccano il fondo x poi mutare in qualcosa di grande dando luce e speranza a tutti coloro che vogliono recepire il messaggio. È una di quelle storie che commuove, emoziona e fa riflettere sul nostro rapporto con le difficoltà della vita, con i nostri disagi e le sofferenze nel corso della nostra vita. È la storia di Nick Vujicic. Un ragazzo australiano nato nel 1982 senza braccia e senza gambe. È una storia a lieto fine, perché Nick conduce una vita quasi “normale”: pratica il surf, è sposato, ha un figlio e soprattutto ha dato un senso alla sua vita che lo colma di felicità e di forza x continuare la sua strada che in confronto a noi esseri “normali” (possedenti di tutti gli arti) è sicuramente molto particolare nella sua “normalità”.

X saperne di + leggi:

https://it.wikipedia.org/wiki/Nick_Vujicic oppure http://www.lifewithoutlimbs.org/

Oppure guarda (in italiano oppure con i sottotitoli):

https://www.youtube.com/watch?v=mzeeDjFanCU (4 minuti)

https://www.youtube.com/watch?v=g_FoMiDjeIc (8 minuti)

https://www.youtube.com/watch?v=W9Y7TTg3588 (8 minuti)

La sua testimonianza è una dimostrazione di come la felicità e il senso della vita non dipendono da ciò che abbiamo o non abbiamo, ma da un atteggiamento interiore. Indipendentemente dalle difficoltà che la vita ci presenta possiamo trovare la forza x non abbatterci diventando vittima del nostro destino, ma diventando formatore della nostra vita.